La storia di Dag Yimer in un'intervista di Giulio Cederna

                                         Lo sguardo onesto del Clandestino
                                                       di Giulio Cederna

“Volevo fare l’avvocato in Etiopia, sono finito a girare documentari in Italia. Quando ho deciso di lasciare il mio paese, non avrei mai immaginato questa conclusione, ma forse c’è un senso in questa storia, non lo so: con la videocamera cerco di restituire un po’ di umanità e giustizia ai ‘clandestini’, così ci chiamate, no?”. Dagmawi Yimer, Dag per gli amici, trentuno anni, in Italia dalle 10 del mattino del 30 luglio 2006, pass numero 8 del quarto sbarco a Lampedusa, in regime di “protezione speciale” dal 2007, è riuscito a smarcarsi dalla dimensione rigorosamente anonima e cifrata nella quale sono relegati i rifugiati nel nostro paese. Da mesi il suo nome appare in bella vista sui manifesti di “Come un uomo sulla terra”, il film dedicato all’odissea dei migranti in Libia diventato un caso nazionale in un crescendo di recensioni, premi, proiezioni a pioggia.

Profilo copto, ovale allungato, occhi neri pungenti, barba accennata, Dag è il ritratto aggiornato, in T-shirt, del ras etiope che sbaragliò gli italiani ad Adua, il generale Makonnen. Fino a qualche anno fa, la sua esistenza nei vicoli del comprensorio di La Gare, un trenino di case attaccate l’una all’altra costruito ai margini del quartiere popolare di Kirkos e della stazione ferroviaria di Addis Abeba, non si discostava più di tanto da quella di ogni altro giovane metropolitano: amava Dostoyevski, guardava i documentari del National Geographic, ascoltava Bob Marley e la musica country, visitava il suo paese grazie alla corriera di un cugino, giocava a basket, frequentava l’Università, coltivava sogni di libertà. Poi, a maggio del 2005, la sua vita è deragliata all’improvviso: sceso in piazza insieme all’opposizione per protestare contro i brogli delle elezioni presidenziali, Dag ha conosciuto il volto feroce della repressione ordinata dal capo del governo Melles Zenawi e insieme ad alcuni amici ha deciso di fuggire. Il suo approdo al documentario è l’esito di questa scelta: si è compiuto a Roma qualche tempo dopo e in modo avventuroso, ma a ben vedere affonda le sue radici in Etiopia, in un contesto familiare che ribalta lo stereotipo dell’immigrato africano.

Il primo incontro con il cinema avvenne all’insegna del mistero. “Quando andavo a scuola passavo davanti ad una grande casa diroccata: aveva un nome sinistro, Setan bet, il posto di Satana, e ci dicevano che molto tempo prima era stato abitato dai fantasmi. Solo crescendo ho capito com’era nata quella leggenda: l’edificio altro non era che il cinema costruito dagli italiani durante il fascismo. I fantasmi erano le immagini dei primi film proiettati ad Addis”.
Il padre era macchinista, aveva uno stipendio e un alloggio sicuro, e non faceva mancare nulla alla famiglia. Durante gli ultimi, pericolosi anni del regime di Mengistu spese un sacco di soldi per comprare un videoregistratore (“una merce rarissima al tempo, l’avevamo solo in due o tre famiglie in tutto il quartiere”) e mantenere i figli il più vicino possibile a casa. “Ricordo come fosse ieri la visione de Il buono, il brutto e il cattivo, in inglese. Interrompevo mio zio ogni volta che scoppiava a ridere chiedendogli di tradurmi le battute, fino a fargli perdere la pazienza…”. La madre aveva un piccolo chiosco, Musica bet; vendeva prodotti audiovisivi, molte cassette e qualche vhs. Dag le dava una mano quando non andava a scuola, si metteva dietro il banco, ascoltava la musica, consigliava i film ai clienti.

Anni dopo, in un periodo di ristrettezze economiche, il padre coprì il cortile con una tenda e lo adattò a rudimentale sala di video-proiezione. Dag decideva la programmazione insieme al cugino: qualche pellicola inglese e francese, tanti film etiopi, tantissimi film americani; quello che passava il convento di Addis a soli 50 centesimi. Il cinema vero costava dieci volte tanto (5 - 7 birr), fino allo sproposito di “Adua”, il documentario di Haile Gerima sulla disfatta coloniale italiana, che riuscì a vedere sborsando ben 20 birr (due euro). In quel periodo Dag iniziò a prendere confidenza con la videocamera. “La prima volta me la feci prestare da un fidanzato di mio sorella per riprendere gli allenamenti del basket e mi divertii molto. Da quel momento, non saprei dire come, divenni il cameraman ufficiale del vicinato: ogni volta che c’era un compleanno o una festa, non lo so, tutti mi davano la videocamera e mi pregavano di filmare. Nel Duemila accompagnai alcune giovani parenti venute da Israele a visitare il sud del paese e con la loro macchina realizzai un diario di viaggio, con tanto di colonna sonora rudimentale montata dalla radio, stop and play, mentre riversavo il girato”.

Se voleva parlare di cinema, Dag incontrava Yonas, amico e vicino di casa: si sedevano per terra davanti alla televisione e restavano ore a guardare e commentare i film masticando il chat. A differenza di Dag, Yonas faceva sul serio, aveva conseguito un diploma nella più importante scuola locale di arti visive e sognava di diventare un regista. Quando il governo ordinò la repressione dell’Università fu uno dei primi a lasciare il paese; Dag lo seguì mesi dopo in compagnia del fratello Daniel.
“In sei giorni raggiungemmo Khartoum, dove sostammo a lungo. Ci fermammo una seconda volta in mezzo al deserto del Sudan per aspettare un nuovo carico. Ripartimmo e in venti giorni arrivammo a Bengasi, trenta persone stipate a forza in un pick-up buono per otto. La gioia durò poco: dopo due settimane ci arrestarono, fummo ammucchiati come animali in un container, riportati al confine meridionale della Libia e incarcerati nel lager di Kufrah, costruito con i soldi degli italiani. Per nostra fortuna in quel periodo la prigione era sovraffollata e il ‘Mercato era buono’, così dicevano. La polizia mi vendette agli intermediari per 30 dinari, l’equivalente di 25 dollari, e riuscimmo a tornare a Bengasi. Solo allora abbiamo saputo di Yonas”.
In un bar di Tripoli videro una sua foto con l’indirizzo del consolato eritreo. Qui un funzionario riconsegnò al fratello il portafoglio che portava sempre incatenato alla cintura: il suo contenuto li aveva spinti a confondere la nazionalità ma alla fine gli aveva permesso di rintracciare un parente e di portare all’identificazione del corpo, unico ‘fortunato’ fra una trentina di naufraghi.
“Ma non finì così: qualche giorno dopo Daniel fu arrestato, riportato a Kufrah, e riuscì a lasciare la Libia solo un anno dopo con i soldi che gli spedimmo noi dall’Italia. A distanza di tanti anni, i genitori di Yonas continuano ad aspettare sue notizie, nessuno ha avuto la forza e la possibilità di avvertirli della morte: non lo so, da noi queste cose non si possono comunicare per telefono. ‘Il deserto e il mare’, il primo film a cui ho partecipato, lo abbiamo dedicato a lui”.

L’arrivo in Italia è stato un incubo. All’umiliazione dello sbarco a Lampedusa sotto lo sguardo dei turisti, è seguita la desolazione di Trapani, cinque mesi a raccogliere le olive a cottimo per potersi comprare le sigarette e consultare internet, e infine il buco nero di Roma. “Quando sono entrato per la prima volta nel palazzo occupato di Anagnina dove ho alloggiato per un certo periodo ho pensato che avrei dovuto scattare una fotografia di quel luogo e mandarla ai miei genitori ad Addis con la scritta ‘saluti da Roma’. Mi ha trattenuto la preoccupazione di farli soffrire, ma continuo a credere che sarebbe stata una cosa giusta da fare”. Di quel periodo, Dag conserva poche altre cartoline: le cene a base di pane spezzato condito con burro piccante etiope; il suo stupore nel vedere la lunga fila di immigrati davanti alla mensa della Caritas in un via vai di turisti e il suo darsi alla fuga pieno di vergogna; l’incubo ricorrente di restare imprigionato in quella ragnatela vischiosa; la scoperta della scuola di italiano Asinitas a via Ostiense; l’incontro con Marco Carsetti e Alessandro Triulzi. “Mi proposero di fare un corso di video partecipato che doveva iniziare di lì a breve e di lavorare con loro alla costruzione di un archivio audiovisivo della memoria migrante. Quel giorno ero stanco e affamato, ma quell’offerta mi rimase dentro… perché quando sbarchi in Italia la cosa che più ti manca è qualcuno che ti ascolti, non lo so, che dia importanza alla tua storia. Il progetto mi interessava molto, risposi, ma aggiunsi che avevo già deciso di partire per Parma alla ricerca di un lavoro. Una sera andai a Termini e mentre ero in coda per fare il biglietto mi chiamarono dalla scuola dicendo che potevano anticiparmi dei soldi perché il corso stava per cominciare”.

Fu così che davanti alla fila della biglietteria della stazione, la sua vita ha cambiato nuovamente binario: poche settimane dopo frequentava un corso di video partecipato diretto dal regista Andrea Segre, perfezionava l’uso della videocamera e studiava il linguaggio del documentario. “Uno dei primi documentari che mi fecero vedere fu un corto di Vittorio De Seta, ‘Lu tempu de li pisci spata’. Rimasi impressionato dalla possibilità di ricreare un mondo quasi senza parole, con la sola forza delle immagini, e di conservarlo fino a noi. La durezza e la poesia di quel mondo scomparso rivivono oggi grazie all’occhio di un regista che lo seppe guardare e raccontare in modo nuovo cinquanta anni fa. Le immagini di questo e altri documentari avevano una consistenza particolare, diversa da quella dei servizi del telegiornale: i racconti non si fermavano alla superficie della notizia, ma andavano in profondità, scavavano nella vita dei personaggi”.
In tre mesi Dag non perse una lezione, l’estate partecipò al montaggio del film Il deserto e il mare e nel 2008, lavorò con Andrea Segre e Riccardo Biadene al film Come un uomo sulla terra. “Durante la traversata verso l’Italia, tenevo un diario di viaggio. Prendevo appunti ogni volta che mi era possibile, scrivevo spesso di notte, prima di addormentarmi, con l’aiuto di una pila montata sull’accendino. Volevo lasciare una traccia di quella avventura assurda e pensavo che qualcuno avrebbe dovuto fare un film sulla nostra esperienza. Ma quando arrivi alla fine del viaggio, esausto, svuotato, impaurito, circondato dall’indifferenza e dal menefreghismo, preferisci dimenticare le torture che hai subito e farti i fatti tuoi. Io non ci riuscivo, una voce mi diceva che dovevo fare qualcosa: lavorare ad Asinitas e poi al documentario mi ha aiutato a liberarmi da un peso. Quando è uscito il film mi sono sentito nuovamente libero e innocente, come un uomo sulla terra”.

Nel 2009 non si è fermato e ha continuato a vivere in simbiosi con la videocamera: ha  realizzato alcuni cortometraggi e ultimato il suo nuovo documentario, C.A.R.A. Italia, il racconto dello spaesamento di chi arriva in Italia attraverso gli occhi  di due giovanissimi ragazzi somali, Hassan e Aboubaker. “Quando li ho incontrati per la prima volta a scuola, mi ha colpito subito la loro innocenza e insieme la loro voglia di imparare la lingua, la loro fame di studiare; mi sono riconosciuto subito nella loro storia. Erano fuggiti pieni di aspettative da Mogadiscio all’inizio del 2008, perché la vita era diventata impossibile, rischiavano di morire ogni giorno senza motivo, e avevano dovuto lasciare l’Università. Ma in Italia che cosa hanno trovato? Da Lamepdusa li hanno portati al C.A.R.A. di Castel Nuovo di Porto, un complesso gigantesco a quaranta chilometri dal centro di Roma, completamente isolato dal centro della città. Malgrado ciò, Hassan e Bouba si sono organizzati e non hanno perso un solo giorno di scuola: lasciavano il centro alle sei e mezza del mattino, cambiavano quattro autobus e dopo quasi tre ore di viaggio senza biglietto, con l’angoscia di essere sorpresi dai controllori, si presentavano puntuali all’inizio della lezione in via Ostiense. Alla fine di marzo, quando hanno ottenuto il permesso di asilo, hanno dovuto abbandonare Castel Nuovo e trovare posto ad Anagnina”.

Con il passare del tempo Dag è diventato un bravo cameraman. La sua attenzione alle inquadrature, ai colori, alla luce, fa pensare alla pittura etiope. Al di là della loro bellezza formale, le sue immagini colpiscono per la capacità di osservare i suoi soggetti da una prospettiva ravvicinata e interna. “Quando vedo i reportage e i servizi sull’immigrazione al telegiornale, mi colpisce l’importanza che danno al contesto, ai vestiti, alla situazione in cui vivono gli immigrati, tutte cose certamente significative e che bisogna raccontare ma che a me interessano meno. Io sono innamorato dei primi piani e delle facce; mi piace riprendere gli occhi, gli sguardi, i sorrisi, la bocca. Le loro espressioni raccontano tante cose: la concentrazione, la volontà di imparare la lingua, lo sforzo che fanno per scrivere, per dire una parola. Quando parlano la loro bocca è più dolce, assomiglia a quella di un bambino. Di Hassan e Bouba mi hanno colpito subito le loro facce oneste che non sanno nulla del mondo che li circonda. Facce gentili e morbide, non ancora indurite dalla vita in Europa. Fanno tenerezza perché è evidente che non hanno gli strumenti per farsi valere in questo mondo e a sentirli parlare in italiano a volte ti viene da sorridere, non lo so. Del resto, anch’io quando mi sforzo di esprimermi in italiano spesso vi faccio ridere”.

E questo è un po’ il suo problema: quello di farsi prendere sul serio per quello che sa fare, e non solo perché è un rifugiato o perché fa tenerezza quando parla nel suo italiano infantile. Nel frattempo continua a lavorare all’Archivio della memoria migrante per contribuire a far vedere la realtà dell’immigrazione sotto una luce diversa e lasciare ai posteri le tracce vive di un’epopea destinata a sparire come la Sicilia di De Seta o la New York dei migranti italiani fotografati da Jacob Riis alla fine dell’Ottocento.
In generale questo mondo non gli piace e non ha una visione particolarmente rosea del futuro, ma non vuole rimanere spettatore degli eventi: a sé stesso augura un buon corso di cinema, perché sa che ha ancora tanta strada da fare, e di poter tornare un giorno in Etiopia da “bravo” regista. “Perché questa nostra vita non è altro che un lungo viaggio per tornare a casa e in Etiopia avrei tante storie da raccontare”.